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Alimenti, diete e integratori: la scienza della nutrizione tra miti, presunzioni ed evidenze

Position Statement GIMBE

Alimenti, diete e integratori: la scienza della nutrizione tra miti, presunzioni ed evidenze
Fondazione GIMBE

Evidence 2018;10(4): e1000180 doi: 10.4470/E1000180

Pubblicato: 16 aprile 2018

Copyright: © 2018 Fondazione GIMBE Questo è un articolo open-access, distribuito con licenza Creative Commons Attribution, che ne consente l’utilizzo, la distribuzione e la riproduzione su qualsiasi supporto esclusivamente per fini non commerciali, a condizione di riportare sempre autore e citazione originale.

La quotidiana interazione con il cibo genera un rapporto di familiarità diffusa e superficiale con l’alimentazione, determinando credenze non supportate da evidenze scientifiche. Su questo fertile terreno è cresciuto l’enorme business di best seller, diete e integratori: nell’era digitale le storie richiedono click, commenti istantanei e titoli sensazionalistici che promettono scoperte miracolose o “nuovi” risultati che stravolgono i dogmi, confutano le evidenze scientifiche e generano introiti pubblicitari e vendite. Questo caos informativo è reso ancora più pericoloso dalle strategie comunicative di alcuni settori dell’industria alimentare, che promuovono prodotti poco salutari, con campagne pubblicitarie ingannevoli, target particolarmente a rischio come i bambini, lobbismo aziendale, coinvolgimento di organizzazioni e social media attraverso supporto finanziario (1). Inoltre, cosa meno immediata per un pubblico già frastornato, la scienza della nutrizione è al centro di aspre critiche sia perché influenzata da bias e conflitti di interesse, sia perché i risultati degli studi cambiano in continuazione: un determinato nutriente o alimento viene prima considerato dannoso, quindi salutare e poi nuovamente dannoso.

Considerato che tutti questi fattori contribuiscono ad alimentare una grave disinformazione pubblica, la Fondazione GIMBE ha realizzato il presente Position Statement, organizzato in tre sezioni:

  • CriticitĂ  metodologiche della scienza della nutrizione
  • Evidenze scientifiche su diete, nutrienti e integratori
  • Futuro della scienza della nutrizione

1. CRITICITĂ€ METODOLOGICHE DELLA SCIENZA DELLA NUTRIZIONE

1.1. L’approccio riduzionistico
La nascita della moderna scienza della nutrizione viene convenzionalmente fatta risalire al 1932, anno in cui la vitamina C fu isolata e testata per la cura dello scorbuto; nei decenni successivi furono identificate ulteriori carenze di singoli nutrienti e relative associazioni, tra cui vitamina A e cecità notturna, vitamina D e rachitismo, tiamina e beriberi, niacina e pellagra. Con la Grande Depressione e la II Guerra Mondiale le preoccupazioni per la scarsità di cibo aumentarono inevitabilmente: questa coincidenza di scoperte scientifiche e contesto geopolitico ha legittimato per la scienza della nutrizione un approccio riduzionistico, che ha concentrato l’attenzione sulle carenze di singoli nutrienti.

All’inizio degli anni ’80 le malattie da carenze di nutrienti erano già ampiamente debellate nei paesi più ricchi grazie ai successi della scienza della nutrizione e ai progressi nel settore agro-alimentare. Tuttavia, a fronte di nuovi big killer riconosciuti nelle malattie croniche non trasmissibili (es. neoplasie, diabete, patologie cardiovascolari), la scienza della nutrizione ha perseverato con l’approccio riduzionistico (2): l’obiettivo era identificare il nutriente rilevante per una patologia, stabilirne il consumo adeguato e tradurre i risultati della ricerca in messaggi chiari per la popolazione. Così, grassi saturi e colesterolo assunti con i cibi diventarono “la” causa delle malattie cardiovascolari e i grassi totali (e, più recentemente, le calorie totali) “la” causa dell’obesità. L’attenzione per i singoli nutrienti emerge chiaramente nelle linee guida USA sulla dieta del 1980 che raccomandavano di «evitare un consumo eccessivo di grassi, grassi saturi e colesterolo; mangiare cibi con sufficiente amido e fibre; evitare l’eccesso di zucchero; evitare l’eccesso di sodio» (3). Questo approccio riduzionistico, risultato vincente per trattare le patologie da carenze di nutrienti, ha progressivamente mostrato tutti i suoi limiti nella prevenzione delle malattie croniche.

1.2. Miti, presunzioni e fatti sull’alimentazione
Nonostante la scienza della nutrizione richieda lo stesso rigore metodologico di altri settori della ricerca sulla salute delle persone, l’esposizione quotidiana al cibo e gli aspetti culturali che influenzano l’alimentazione contribuiscono a generare credenze basate su congetture, aneddoti e intuizioni piuttosto che su evidenze scientifiche. In quanto esseri umani, nemmeno i ricercatori sono immuni da questo fenomeno e le convinzioni personali possono influenzare il reporting dei loro studi, generando un inestricabile mix di opinioni ed evidenze.

Dal punto di vista squisitamente semantico, se per scienza s’intende il “processo di comprensione dei fenomeni attraverso l’osservazione e la sperimentazione”, le credenze sono “sensazioni che qualcosa sia vero”. Di conseguenza, se la scienza rappresenta idealmente la scoperta di una verità che esiste indipendentemente dal ricercatore, le credenze sono convinzioni radicate e filtrate attraverso una visione individuale dei fenomeni. Considerato che nella maggior parte dei casi le credenze non hanno una base scientifica, il termine “credenza non scientifica” definisce un fatto generalizzabile senza adeguate evidenze a supporto.

Esistono 3 categorie di credenze che influenzano la percezione pubblica su questioni scientifiche, rappresentando al tempo stesso lo spettro d’interpretazione delle evidenze (4):

  • miti: credenze ritenute vere a dispetto di evidenze sostanziali che le confutano;
  • presunzioni: credenze ritenute vere per le quali le evidenze scientifiche non confermano nĂ© confutano la veridicitĂ ;
  • fatti: asserzioni fondate su evidenze sufficienti per considerarle empiricamente provate per scopi pratici.

Secondo queste definizioni, se le presunzioni identificano le cosiddette aree grigie della ricerca che dovrebbero essere chiarite da studi adeguatamente disegnati, i miti dovrebbero essere considerati falsi in quanto giĂ  smentiti dalla ricerca. Infatti, anche se occasionalmente, per singoli individui, in specifici setting potrebbero essere veri, i miti rimangono assolutamente non generalizzabili.

Come documentato dalle tabelle 1, 2, 3, che riportano rispettivamente miti, presunzioni e fatti sull’obesità, questa dinamica interpretativa è particolarmente evidente in questo settore, sia perché le persone ogni giorno entrano in contatto e prendono decisioni sul cibo, sia perché i comportamenti alimentari sono influenzati da consuetudini personali, familiari, culturali e religiose.

1.3. CriticitĂ  della ricerca primaria
Varie criticità oggi condizionano la ricerca e, di conseguenza, l’affidabilità delle evidenze scientifiche sulla nutrizione umana: alcune riguardano la metodologia della ricerca, altre le influenze indebite dei ricercatori generate da conflitti di interesse.

1.3.1. Risultati non plausibili
Le evidenze prodotte dalla scienza della nutrizione sono state oggetto di numerose critiche, sia perché i risultati degli studi osservazionali sono stati successivamente smentiti da trial randomizzati (0/52 tasso di successo in una revisione (51)), sia per il perpetuarsi di errori (4,52). Ad esempio, eccetto le gravi carenze nutrizionali, gli effetti di modeste differenze nell’assunzione di singoli nutrienti sono difficili da studiare in maniera affidabile a livello di popolazione. Per minimizzare le controversie è dunque indispensabile fare tesoro degli errori del passato ed essere consapevoli che risultati non plausibili, “troppo belli per essere veri”, minacciano la scienza della nutrizione in vari settori: accuratezza degli indicatori di apporto nutrizionale nelle survey, associazione tra singoli nutrienti ed outcome clinici negli studi osservazionali, sovrastima dell’efficacia degli interventi nutrizionali nei trial randomizzati, stime di impatto sulle popolazioni.

Accuratezza degli indicatori di apporto nutrizionale nelle survey. L’apporto nutrizionale è difficile da identificare attraverso i questionari utilizzati dalla maggior parte degli studi: ad esempio, una recente analisi dimostra che nella National Health and Nutrition Examination Survey per 2/3 dei partecipanti gli indicatori di apporto energetico derivati dai questionari sarebbero incompatibili con la vita (53). Anche indicatori più accurati basati su strumenti biochimici, web, fotografici, di telefonia mobile o sensori non sempre sono in grado di ridurre i bias (54).

Associazione tra singoli nutrienti ed outcome clinici negli studi osservazionali. La banca dati PubMed, che contiene solo una parte della produzione scientifica globale, raccoglie oggi oltre 28 milioni di articoli dove gli studi osservazionali rappresentano una percentuale rilevante, con un rapporto di circa 20:1 rispetto a quelli sperimentali. Per quasi tutti i singoli nutrienti esistono studi osservazionali, dalla validità spesso discutibile, che li associano ai più svariati outcome clinici. Ad esempio, al 15 aprile 2018 PubMed restituisce oltre 42.000 citazioni con le parole chiave “caffè” o “caffeina” e più di 16.000 con “soia”, molte delle quali riportano associazioni tra nutrienti ed outcome clinici. Ma in una simile mole di letteratura, quanti sono i dati realmente affidabili? Ad esempio, per rispondere alla domanda “gli alimenti che assumiamo causano il cancro?”, dopo aver selezionato in maniera random 50 ingredienti da un noto libro di cucina, Schoenfeld e Ioannidis hanno verificato l’esistenza di studi osservazionali che documentavano un’associazione tra assunzione dell’alimento e aumento (o riduzione) del rischio di neoplasie (55). Sono stati identificati studi di associazione per 40 dei 50 alimenti e, verosimilmente, sarebbero stati identificati anche per gli altri 10 se gli autori avessero effettuato la ricerca per componenti biochimiche (es. “vanillina” invece di “vaniglia”). Le associazioni statisticamente significative erano numerosissime, ma la maggior parte delle stime erano incompatibili con il buon senso: infatti, questi studi dimostravano che, aumentando o diminuendo l’apporto di qualunque nutriente in 2 porzioni/die, si potrebbe eradicare il cancro a livello mondiale! In realtà numerosi trial randomizzati dimostrano che è molto raro che un singolo nutriente determini una riduzione del rischio relativo (RRR) superiore al 10% per i principali outcome clinici e quando si confrontano i terzili estremi dei consumi a livello di popolazione la maggior parte sono inferiori al 5% (56); per la mortalità totale, la RRR è generalmente inferiore al 0.005%, tendente allo zero. Con questi valori di RRR le rispettive riduzioni di rischio assoluto sarebbero assolutamente irrilevanti. Sicuramente alcune correlazioni possono riflettere associazioni reali, ma la stragrande maggioranza sono verosimilmente dovute a fattori confondenti, bias e analisi multiple che aumentano la probabilità di risultati statisticamente significativi sempre benvenuti salutati per varie ragioni: reale interesse scientifico, conflitti di interesse, fedeltà a determinate ipotesi e aspettative. In tal senso, se i media sono spesso accusati di manipolare i risultati della ricerca, in realtà le distorsioni sono frequentemente riconducibili agli articoli originali e ai relativi comunicati stampa. Ecco perché, tranne rare eccezioni, sia gli studi osservazionali sia quelli sperimentali sui singoli nutrienti servono più alle carriere dei ricercatori che all’evoluzione delle conoscenze della scienza della nutrizione.

Sovrastima dell’efficacia degli interventi nutrizionali nei trial randomizzati. Entità maggiori degli effetti sono più plausibili per modelli alimentari complessi che sommano gli effetti di diversi nutrienti e stili di vita. Da alcuni trial randomizzati sono emersi risultati molto promettenti: lo studio Lyon Diet Heart (57) e il più recente trial Primary Prevention of Cardiovascular Disease with a Mediterranean Diet (PREDIMED) (58) hanno dimostrato che la dieta mediterranea riduce il rischio relativo di outcome clinici compositi (infarto, stroke, mortalità cardiovascolare) rispettivamente del 70% e del 30%. Tuttavia, l’entità di questi effetti è verosimilmente sovrastimata per varie ragioni: interruzione anticipata dei trial per eccesso di analisi intermedie (59), selezione di popolazioni ad alto rischio (rispettivamente pazienti con patologie cardiovascolari e sindrome metabolica), diete di confronto inadeguate nel gruppo di controllo (in PREDIMED, nel gruppo di controllo definito a “basso contenuto di grassi”, il 37% dell’apporto energetico veniva da grassi, nonostante tale definizione richieda un apporto calorico di grassi <20%). Sovrastime dell’efficacia possono essere determinate anche da sbilanciamenti nei gruppi di studio nonostante la randomizzazione e da disegni di studio che rendono inevitabile il mancato blinding, influenzando l’accertamento di alcuni outcome clinici. Peraltro, i dati del trial PREDIMED stanno portando a una proliferazione di studi osservazionali di associazione, molti dei quali contengono affermazioni assolutamente non plausibili: ad esempio, basterebbe assumere almeno 3 porzioni di nocciole a settimana per diminuire la mortalità totale del 39% (60). Nonostante i limiti, questi trial randomizzati rappresentano un importante passo avanti e lasciano sperare che in futuro sia possibile identificare interventi nutrizionali in grado di produrre una RRR della mortalità di almeno il 5% nella popolazione generale e non solo nei pazienti ad altro rischio. Tuttavia, questi studi richiederebbero un campione di 10 volte maggiore rispetto a quello di PREDIMED (n=7.447 partecipanti), follow-up a lungo termine, collegamenti ai registri di mortalità e grande attenzione a massimizzare la compliance. Inoltre, gli interventi dovrebbero considerare non solo la tipologia di dieta, ma anche i fattori socioeconomici e ambientali in grado di influenzare stili di vita, comportamenti e compliance.

Stime di impatto sulle popolazioni. Negli Stati Uniti, senza contare l’impatto dell’obesità, il 26% dei decessi e il 14% degli anni di vita aggiustati per disabilità viene attribuito a fattori di rischio alimentare (61). Considerato che nessun altro fattore di rischio (es. tabacco, limitata attività fisica) ha un simile impatto sulla salute, il sospetto è che si tratti un risultato sovrastimato perché costruito su stime di rischio di studi con risultati non plausibili. Peraltro, non vengono affatto considerati i fattori socio-economici che potrebbero essere alla base dei problemi di salute, determinando anche una dieta inadeguata.
Queste criticità dimostrano che per chiarire le aree grigie della scienza della nutrizione «le risposte definitive non possono venire da milioni di studi osservazionali né da trial di piccole dimensioni» (62): servono trial randomizzati adeguatamente dimensionati per informare il disegno di mega-trial conclusivi su interventi multifattoriali. Inoltre, è necessario esplorare altri aspetti dell’alimentazione che possono influenzare a vario titolo la società e il benessere delle popolazioni: sicurezza dei cibi, sostenibilità, diseguaglianze sociali, mancata disponibilità di cibo, impatto della produzione agroalimentare sui cambiamenti climatici.

1.3.2. Conflitti di interesse
Quando le evidenze sono conflittuali e non definitive, opinioni e conflitti di interesse possono influenzare articoli, editoriali, linee guida e normative. Rispetto al potenziale impatto sulla salute, il finanziamento pubblico e delle organizzazioni no-profit per la ricerca nutrizionale è veramente esiguo; di conseguenza, l’industria alimentare gioca un ruolo chiave nel finanziamento degli studi con un ruolo non sempre trasparente (63,64). Ad esempio, gli studi sponsorizzati dall’industria alimentare presentano risultati distorti per gli effetti sia delle bevande dolcificate (65,66), sia dei dolcificanti artificiali (67). I bias nella ricerca sponsorizzata su altri aspetti nutrizionali sono meno evidenti, con un trend non significativo di risultati favorevoli aumentato del 30% (68), dato simile a quello degli studi sponsorizzati dall’industria farmaceutica e biomedicale (69). Nonostante i potenziali bias, l’esperienza, la capacità e l’innovazione dell’industria alimentare possono contribuire ad affrontare le sfide della produzione, elaborazione e distribuzione del cibo, oltre a favorire le innovazioni per il bene della società (70). Tuttavia, i problemi relativi al coinvolgimento dell’industria alimentare nella ricerca sono rilevanti e non sempre di facile risoluzione, ma data l’entità delle sfide nutrizionali su scala mondiale, tutti gli attori del sistema, industria compresa, devono contribuire alla loro risoluzione. Ad esempio, le partnership con l’industria alimentare devono essere gestite secondo regole chiare e trasparenti, come già proposto nel Regno Unito dal Medical Research Council (71) e dalla Prevention Research Partnership (72).

Dal canto loro, i ricercatori hanno la responsabilità di essere rigorosi nella conduzione dei loro studi e accurati nel reporting, così che le informazioni possano essere opportunamente utilizzate dalla comunità scientifica, dalla società e dalle politiche sanitarie. Purtroppo, molti ricercatori sono condizionati da conflitti d’interesse che possono influenzare negativamente i loro studi o alimentare le critiche per rifiutare senza ragioni plausibili i risultati di studi ben condotti. I conflitti di interesse di natura finanziaria sono inevitabilmente quelli più discussi, in quanto le relazioni economiche con l’industria possono distorcere il reporting della ricerca.

In realtà, i ricercatori possono avere conflitti di interesse finanziari non correlati all’industria: ad esempio, mettere in discussione le politiche alimentari può influenzare il finanziamento dei loro studi; i ricercatori autori di best seller sulle diete possono distorcere i risultati degli studi per difendere il proprio brand personale; la pressione a pubblicare su riviste biomediche ad elevato impatto per promozione professionale, incarichi o bonus possono condizionare la decisione di pubblicare (o meno) e in quale rivista.

Ma la scienza della nutrizione può essere influenzata in maniera impropria anche da potenziali conflitti di interesse non finanziari: bias individuali, posizioni politiche, opportunità di promozione e fedeltà alla “norma”. Una singolare distorsione dei risultati della ricerca nella convinzione di agire in maniera corretta è il cosiddetto “bias dal cappello bianco” (73) che si concretizza con varie modalità: dal bias di pubblicazione alla pubblicazione selettiva dei risultati che confermano un effetto positivo predeterminato; dalla citazione selettiva (non bilanciata) solo degli studi che supportano una particolare posizione alla inclusione/esclusione inappropriata di studi e dati nelle revisioni; dalla comunicazione fuorviante dei risultati della ricerca nelle conclusioni dello studio a quella nei comunicati stampa e interventi sui media. Il bias dal cappello bianco sembra fondarsi sulla paradossale convinzione dei ricercatori che queste distorsioni migliorino di fatto la salute delle popolazioni, mentre in realtà danneggiano la “salute della scienza”, compromettendo l’integrità della ricerca e la fiducia dei cittadini nei confronti del metodo scientifico.

1.3.3. Le disclosure inadeguate
Recentemente Ioannidis ha rilevato che le attuali modalità per la disclosure dei conflitti di interesse nelle scienza della nutrizione sono inadeguate e ha proposto una maggiore trasparenza e l’estensione delle informazioni che la disclosure deve contenere (74). Considerato che è ormai superata la posizione puritana per cui accettare finanziamenti dall’industria alimentare condizioni in maniera automatica i risultati (64), per gestire adeguatamente i conflitti di interesse di natura finanziaria, un registro pubblico delle disclosure finanziarie potrebbe contribuire a comprendere eventuali influenze sulla ricerca scientifica, sulle politiche sanitarie e sulle preferenze alimentari individuali e collettive. Le disclosure dovrebbero riguardare anche i conflitti di interesse finanziari non legati all’industria alimentare come l’authorship di best seller su alimentazione, diete e perdita di peso o le consistenti donazioni che garantiscono la sostenibilità di molte iniziative no-profit sull’alimentazione.

Un altro aspetto riguarda i conflitti di interesse di natura non finanziaria: è quasi inevitabile che un ricercatore si costruisca un’opinione che va spesso oltre i dati e serve a difendere il proprio lavoro, le proprie teorie e scoperte. Tuttavia, i ricercatori della scienza della nutrizione si trovano ad affrontare un’ulteriore sfida: ogni giorno devono scegliere cosa mangiare, evitando che scelte individuali influenzino i risultati dei loro studi. L’esposizione a regole alimentari familiari, culturali o religiose possono talora intrecciarsi con valori fondamentali e/o credenze metafisiche assolutiste: ad esempio, un ricercatore che pratica una determinata religione potrà mai affermare che una prescrizione alimentare della sua religione è poco salutare e non dovrebbe essere seguita?

Anche patrocinio e attivismo sono divenuti aspetti fondamentali del lavoro di molti ricercatori e dovrebbero pertanto essere dichiarati come conflitti di interesse. Infatti, se questo impegno è quasi sempre indotto da nobili intenzioni e può generare rilevanti benefici per la società e per la salute pubblica, patrocinio e attivismo rischiano di contrapporsi al metodo scientifico, che impone di non essere influenzati da credenze o partigianerie. Ecco perché i ricercatori della scienza della nutrizione devono includere nelle loro disclosure la loro opera di patrocinio e attivismo così come le loro preferenze alimentari, se rilevanti, rispetto a quanto riportato e discusso nelle loro ricerche. Questo risulta particolarmente importante per preferenze alimentari specifiche e rigorosamente rispettate: ad esempio, i lettori dovrebbero sapere se un ricercatore segue una dieta strettamente vegana, la dieta Atkins, una dieta senza glutine, una dieta con proteine animali, se assume integratori alimentari, se questo tipo di scelte può influenzare i risultati delle sue ricerche. Le disclosure delle preferenze alimentari rafforzano la percezione dell’integrità dell’autore e permettono ai lettori di sapere se l’autore sostiene il suo messaggio al punto tale da fare coerenti scelte di vita.

1.4. CriticitĂ  delle revisioni sistematiche
Nella scienza della nutrizione gli autori delle revisioni sistematiche devono affrontare sfide specifiche, in particolare quando effettuano una combinazione statistica con tecniche di meta-analisi (75). Infatti, se per i trial clinici sui farmaci è più semplice valutare la comparabilità degli interventi, quelli che valutano l’efficacia degli interventi nutrizionali sono estremamente eterogenei, rendendo poco affidabile la combinazione statistica dei risultati: dalla selezione delle popolazioni alla scelta del gruppo di confronto, dalla qualità metodologica degli studi alle tecniche di meta-analisi. D’altro canto, nelle popolazioni degli studi osservazionali esiste un’estrema variabilità di abitudini alimentari: se alcune caratteristiche della dieta sono relativamente costanti (es. consumo di caffè) e vengono riportate in maniera affidabile, il consumo della maggior parte degli alimenti (es. verdure) e nutrienti (es. sodio) è estremamente variabile e difficile da quantificare. Considerato che i singoli studi gestiscono queste problematiche in maniera differente (es. riportare gli apporti dietetici in terzili, quartili, quintili o in altri tipi di raggruppamento), la loro combinazione statistica con tecniche di meta-analisi spesso necessita dei dati a livello di partecipanti individuali, da richiedere ai ricercatori degli studi primari.

Nella scienza della nutrizione i risultati contraddittori dalle revisioni sistematiche con meta-analisi che derivano da metodi inadeguati possono essere fuorvianti, oltre che sfruttati per contrastare scoperte scientifiche poco “lusinghiere” nei confronti di prodotti commerciali: di conseguenza, il loro potenziale impatto su sviluppo di linee guida, politiche sanitarie, abitudini alimentari ed esiti di salute è inevitabilmente molto elevato. Pertanto, se i ricercatori sono tenuti ad aderire agli standard internazionali per la stesura dei protocolli delle revisioni sistematiche (76) e per il loro reporting (77), le riviste biomediche devono garantire alcune procedure standard nel processo di peer review. Innanzitutto, selezionare per la revisione esperti di meta-analisi e dell’argomento in esame; in secondo luogo, richiedere agli autori della meta-analisi di contattare gli autori degli studi originali per confermare i dati; quindi, richiedere agli autori della meta-analisi di condividere i dati di sintesi e i dettagli metodologici per consentire la riproducibilità; ancora, prediligere le meta-analisi che utilizzano dati da pazienti individuali, rispetto a quelle che aggregano i risultati degli studi; infine, analizzare rigorosamente i potenziali conflitti di interesse sia per le meta-analisi, sia per gli studi inclusi (78).

1.5. CriticitĂ  delle linee guida
Gli standard internazionali per la produzione di linee guida prevedono oggi metodi rigorosi e trasparenti volti a minimizzare i bias (79-81), introdotti solo di recente nell’ambito dell’alimentazione. Considerata la rilevanza di un approccio evidence-based e dei progressi metodologici correlati, Blake et coll. (82) hanno recentemente valutato i metodi utilizzati per ricercare, valutare la qualità e sintetizzare le evidenze scientifiche, classificare le raccomandazioni e gestire i conflitti di interesse di 323 linee guida di scienza della nutrizione pubblicate dal 2010. Lo studio ha dimostrato che, nonostante i progressi metodologici, i margini di miglioramento della qualità di linee guida sulla nutrizione sono enormi.

Le Dietary Guidelines for Americans pubblicate dall’U.S. Department of Health and Human Services e dal Department of Agriculture vengono riviste ogni cinque anni in relazione all’evoluzione delle conoscenze scientifiche e costituiscono la base delle politiche alimentari istituzionali. L’aggiornamento 2015-2020 (83) è stato fortemente criticato perché le metodologie di produzione hanno condizionato la base scientifica per la formulazione delle raccomandazioni (84). In particolare, a fronte dell’obiettivo di “fornire raccomandazioni basate sulle evidenze scientifiche” sull’alimentazione e l’attività fisica per “promuovere la salute per tutte le fasi della vita e ridurre il rischio delle maggiori patologie croniche nella popolazione degli USA”, la maggior parte delle raccomandazioni sono sovrapponibili a quelle delle precedenti linee guida: limitare l’apporto di sodio, grassi saturi (sostituendoli con grassi insaturi) e zuccheri semplici; aumentare il consumo di frutta, verdura e nocciole. Inoltre una revisione dettagliata delle nuove linee guida conferma due allarmanti verità (85): se è vero che esistono pochi trial controllati randomizzati di elevata qualità per valutare l’efficacia dei vari interventi sull’alimentazione su outcome clinicamente rilevanti, le linee guida formulano diverse raccomandazioni basate su studi osservazionali e end-point surrogati, senza operare distinzioni tra quelle basate sul consenso di esperti piuttosto che su trial di adeguata qualità metodologica. Ancora più severa l’analisi di Teicholz (86) che punta il dito sul fatto che il panel non ha utilizzato metodi standardizzati per ricerca e valutazione delle evidenze scientifiche, basandosi principalmente su revisioni sistematiche di società scientifiche come la American Heart Association e l’American College of Cardiology che ricevono consistenti finanziamenti dall’industria alimentare e farmaceutica. Peraltro, gli stessi componenti del panel, che non avevano l’obbligo di dichiarare i potenziali conflitti di interesse, hanno condotto revisioni ad hoc della letteratura, senza definire criteri espliciti per identificare o valutare gli studi.

A fronte di queste critiche, le US National Academies hanno recentemente avanzato proposte per aumentare la trasparenza e ridurre i potenziali bias, tra cui la selezione del panel e la valutazione critica delle evidenze (87,88). Le raccomandazioni suggeriscono di stabilire gruppi separati per identificare nuovi quesiti di ricerca o condurre nuove revisioni sistematiche, valutando e integrando le evidenze e sviluppando raccomandazioni da tradurre in suggerimenti per la politica sanitaria. Viene anche suggerita la standardizzazione dei metodi e dei criteri che, tuttavia, secondo i più scettici, non sarà sufficiente a contrastare i bias che influenzano l’agenda della ricerca e i conflitti di interesse (89).

In Italia, oltre al Quaderno del Ministero della Salute (90), esistono solo due linee guida istituzionali sulla nutrizione:

  • il documento “Elaborazione del tipo di dieta verso cui indirizzare il cittadino, consigliando le opportune variazioni”, pubblicato nel giugno 2004 dal Gruppo di lavoro DM 1 settembre 2003 (91);
  • le “Linee guida per una sana alimentazione italiana” pubblicate nel 2003 dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) (92).

L’obsolescenza di tali documenti e le metodologie di produzione ben lontane dagli standard internazionali rendono prioritaria l’elaborazione di linee guida basate sulle migliori evidenze scientifiche, possibilmente da integrare nel nuovo Sistema Nazionale Linee Guida. Al momento non è possibile giudicare la qualità di quelle annunciate lo scorso 11 ottobre dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA) (93), l’ente che di fatto è subentrato all’INRAN.

Infine, tra i documenti prodotti dalle società scientifiche si segnala la IV Revisione dei “Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana (LARN)” (94) pubblicata dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU): sul documento non è possibile esprimere alcun giudizio metodologico, considerato che, ad eccezione di alcune tabelle, non è pubblicamente accessibile (95).

2. EVIDENZE SCIENTIFICHE SU DIETE, NUTRIENTI E INTEGRATORI

2.1. Diete
Con il termine dieta, dal greco dìaita (stile di vita), si intende un’alimentazione corretta, sana ed equilibrata contenente tutte le sostanze nutritive nelle giuste dosi e senza eccessi, volta a soddisfare non solo le esigenze fisiologiche dell’organismo, ma anche gli aspetti psicologici e relazionali attraverso l’appagamento dei sensi, il rispetto della tradizione del territorio e dei ritmi della vita quotidiana (96). La dieta deve essere molto diversificata, ovvero contenere alimenti con caratteristiche nutritive differenti così da apportare tutte le sostanze necessarie alla salute dell’organismo: macronutrienti (carboidrati, proteine, grassi), micronutrienti (vitamine, minerali) ed altre sostanze (es. fibre, antiossidanti).

Considerato che l’eccessivo consumo di uno specifico alimento o un’alimentazione basata sull’uso di un numero limitato di cibi determina generalmente squilibri nutrizionali, il modello di dieta promosso in ambito europeo prevede un equilibrato bilanciamento dei macronutrienti:

  • 45-60% delle calorie totali da carboidrati, meglio se complessi e ricchi in fibre, quindi integrali, limitando gli zuccheri semplici;
  • 20-35% delle calorie da grassi, di cui meno del 10% saturi;
  • 15% circa delle calorie da proteine (0,9 g/kg del peso corporeo).

In Italia, al fine di orientare la popolazione verso comportamenti alimentari salutari, il Ministero della Salute ha elaborato un modello di dieta coerente con la tradizione alimentare nazionale: la cosiddetta piramide alimentare giornaliera indica per ciascun gruppo di cibi le porzioni da consumare per un’alimentazione varia ed equilibrata, in armonia con la tradizione mediterranea (96). In base alla composizione in sostanze nutritive, gli alimenti sono suddivisi in 5 gruppi da combinare e distribuire nei pasti giornalieri: frutta e ortaggi; cereali e derivati; latte e derivati; carne, pesce, uova, legumi; grassi e condimenti.

Accanto alle diete che includono tutti gli alimenti (onnivore), negli anni si sono progressivamente diffusi regimi alimentari alternativi che ne escludono alcuni per scelte etiche, ambientaliste, religiose o legate a mode piĂą o meno temporanee (box 1). Ovviamente queste diete, per la riduzione o esclusione di alcuni tipi di alimenti potrebbero creare squilibri o carenze di sostanze nutritive con effetti avversi sulla salute.

Box 1. Regimi dietetici alternativi (modificata da (97))

  • Diete a base di frutta e verdura, con esclusione totale o parziale di alimenti di origine animale: es. dieta vegetariana, semi-vegetariana, vegana, fruttariana
  • Diete basate sul rifiuto di metodi utilizzati nella preparazione dei cibi: es. dieta crudista
  • Diete ad elevato consumo di un macronutriente: es. dieta iperproteica
  • Diete di esclusione, basate sull’eliminazione di un cibo o di una categoria di alimenti ritenuti dannosi: es. dieta senza glutine in soggetti non celiaci
  • Diete basate sulla scelta e combinazione, equilibrata, di cibi acidi e alcalini: es. dieta macrobiotica

In ogni caso, a dispetto del suo significato originale, oggi il termine “dieta” viene utilizzato come sinonimo di restrizione calorica finalizzata al dimagrimento e alla riduzione del peso corporeo, obiettivi per i quali esiste un’ampia varietà di programmi più o meno noti e brandizzati che forniscono regimi dietetici strutturati e raccomandazioni sullo stile di vita, generando un mercato milionario difficilmente stimabile (98). La divulgazione di massa utilizza, oltre ai best seller, marketing individuale attraverso vari mezzi di comunicazione, da quelli tradizionali (giornali, radio, TV) a siti web e social media. Il dibattito sull’efficacia delle varie diete verte su vari aspetti: composizione ottimale di macronutrienti (es. basso apporto di carboidrati vs basso apporto di grassi), variabile combinazione di alimenti, opportunità di includerli/escluderli dai regimi dietetici, incompatibilità dell’assunzione contemporanea di alcuni alimenti, confronto tra regimi dietetici più o meno noti o brandizzati e, meno frequentemente, altri interventi sullo stile di vita.

Definire l’efficacia dei regimi dietetici finalizzati al dimagrimento è importante perché i soggetti in sovrappeso e obesi necessitano di informazioni basate su evidenze scientifiche, sia per seguire la dieta più appropriata, sia per evitare di avventurarsi in improbabili regimi alimentari promossi da imbonitori più o meno noti, il cui unico scopo è il guadagno personale. Alcune spiegazioni fisiologiche sui meriti delle differenti composizioni di macronutrienti, inclusa la variabile risposta genetica alle diete con differente apporto di grassi, sono facilmente intuibili (99): ad esempio, le diete a basso contenuto di carboidrati determinano una perdita di peso grazie ad un più elevato apporto proteico, che generalmente induce un maggior senso di sazietà rispetto a grassi e carboidrati (100).

Tuttavia, a dispetto di potenziali meccanismi biologici che spiegano perché alcune diete dovrebbero essere più efficaci di altre, recenti revisioni della letteratura suggeriscono che l’efficacia delle diete è molto simile, se non addirittura uguale (101,102), una conclusione scientifica molto diversa dai martellanti slogan pubblicitari o dai pareri discordi di esperti che danno vita ad infuocati dibattiti nei salotti televisivi. Peraltro, dal punto di vista metodologico, solo un numero limitato di revisioni condotte sulle diete più note hanno utilizzato tecniche di meta-analisi per fornire stime quantitative dell’efficacia delle varie diete. Tali revisioni non sono in grado di determinare la performance di ciascuna dieta se non direttamente confrontata con un’altra in trial clinici: di conseguenza, non esplorando l’intera gamma di potenziali confronti in maniera metodologicamente rigorosa, queste revisioni potrebbero non avere identificato importanti benefici di diete specifiche o delle loro composizioni. Per rispondere a questo quesito, Johnston et coll. (103) hanno condotto una revisione sistematica per valutare l’efficacia sulla perdita di peso di popolari diete brand in relazione alla composizione di macronutrienti (tabella 4).

Grazie ad una ricerca bibliografica su 6 database (AMED, CDSR, CENTRAL, CINAHL, EMBASE, MEDLINE) sono stati selezionati trial clinici che hanno randomizzato adulti sovrappeso o obesi (indice di massa corporea ≥25) a una dieta brand autogestita vs nessuna dieta e che hanno riportato come outcome primario il peso o l’indice di massa corporea a 6 e 12 mesi di follow-up (±3 mesi). Due revisori indipendenti hanno estratto dati relativi a popolazione, interventi, outcome, rischio di bias e qualitĂ  delle evidenze, utilizzando un framework bayesiano con meta-regressione per valutare l’efficacia relativa delle tipologie di diete e programmi per ridurre peso e indice di massa corporea rispetto ai valori di riferimento; tutte le analisi sono state aggiustate in relazione alla terapia cognitivo-comportamentale e all’esercizio fisico. La revisione sistematica ha incluso 48 trial randomizzati per un totale di 7.286 soggetti, dimostrando che, se confrontate con nessun regime dietetico, sia le diete a basso apporto di carboidrati sia quelle a ridotto contenuto di grassi determinano una maggior riduzione di peso (tabella 5), ma le differenze tra le singole diete brand sono minimali: ad esempio, la dieta Atkins determina una riduzione 1,71 kg in piĂą della dieta Zone a 6 mesi di follow-up.

Tra 6 e 12 mesi di follow-up, la riduzione di peso è influenzata dalla terapia cognitivo-comportamentale e dall’esercizio fisico: tale riduzione è statisticamente significativa per terapia cognitivo-comportamentale a 6 mesi, ma non a 12, mentre per l’esercizio fisico lo è a 12 mesi, ma non a 6 legittimando entrambi gli approcci in associazione alla dieta (tabella 6).

Eventi avversi sono stati riportati in 5 trial, tutti sulla dieta Atkins. Le differenze erano statisticamente non significative per gli eventi avversi severi, ma in un unico trial quelli di media gravitĂ  erano piĂą frequenti in maniera significativa nel gruppo a basso apporto di carboidrati rispetto a quello a basso apporto di grassi: costipazione (68% vs 35), cefalea (60% vs 40%), alitosi (38% vs 8), crampi muscolari (35% vs 7%), diarrea (23% vs 7%), debolezza generale (25% vs 8%), rash cutaneo (13% vs 0%).

Tre i messaggi chiave che emergono da questa rigorosa revisione sistematica: innanzitutto, qualsiasi dieta a ridotto contenuto di carboidrati o grassi determina una perdita di peso significativa; in secondo luogo, le differenze di perdita di peso tra singole diete brand sono limitate per cui non è possibile raccomandare alcuna specifica dieta brand; infine, terapia cognitivo-comportamentale ed esercizio fisico dovrebbero sempre integrare qualsiasi programma alimentare finalizzato alla riduzione del peso corporeo.

2.2. Cibi e nutrienti
Tenendo sempre in considerazione le criticità della ricerca nella scienza della nutrizione già discusse (§ 1.3), in particolare per il meccanismo dell’associazione negli studi osservazionali, la tabella 7 riporta gli effetti cardiometabolici di cibi e bevande, nutrienti e diete. La qualità complessiva delle evidenze (box 2) tiene conto di vari disegni di studio, ciascuno dei quali offre conoscenze complementari per valutare forza, plausibilità e relazioni tra dieta e malattia. Interessante rilevare come la concordanza dei risultati tra trial randomizzati e studi osservazionali, che spesso passa inosservata, non sia affatto insolita su numerosi alimenti, nutrienti e diete (104-108). Dal punto di vista metodologico emerge innanzitutto il numero limitato di trial controllati e randomizzati su outcome clinici, che solo per la dieta mediterranea forniscono consistenti prove di efficacia; la maggior parte delle evidenze deriva infatti da studi osservazionali e da trial randomizzati su outcome surrogati (pressione arteriosa, iperlipidemia, glicemia, resistenza all’insulina, frequenza cardiaca, infiammazione sistemica), non tutti correlati ad outcome cardiovascolari clinicamente rilevanti. Per quanto riguarda cibi e nutrienti, le migliori evidenze disponibili, seppur mai definitive, suggeriscono una dieta ricca di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, pesce, nocciole/noci e latticini, oltre a cibi contenenti grassi monoinsaturi, polinsaturi e omega-3. Preferibilmente da evitare invece carni lavorate e bevande dolcificate, oltre a cibi ricchi di sodio, amido, zuccheri raffinati, grassi insaturi, colesterolo animale.

Box 2. Legenda simboli tabella 7

Efficace

Dannoso

Nessun effetto

– Evidenze assenti

+ Evidenze limitate: pochi studi, risultati contraddittori

++ Evidenze moderate: numero relativamente basso di studi, rilevanti criticità metodologiche (es. popolazioni limitate, inadeguate dimensioni del campione, breve durata del follow-up) e/o evidenze rilevanti che supportano l’ipotesi contraria

+++ Evidenze adeguate: numerosi studi ben condotti, poche criticità metodologiche e/o alcune evidenze che supportano l’ipotesi contraria precludendo conclusioni definitive

++++ Evidenze consistenti: numerosi studi ben condotti, con poche o nessuna evidenza che supportano l’ipotesi contraria

2.3. Integratori
Secondo la definizione della normativa di settore (Direttiva 2002/46/CE, recepita in Italia dal D. Lgs. n. 169/2004), gli integratori sono «prodotti alimentari destinati ad integrare la comune dieta e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive, quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze aventi un effetto nutritivo o fisiologico, in particolare, ma non in via esclusiva, aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di origine vegetale, sia monocomposti che pluricomposti, in forme predosate» (109) che, secondo quanto riportato sul sito del Ministero della Salute «possono contribuire al benessere ottimizzando lo stato o favorendo la normalità delle funzioni dell’organismo con l’apporto di nutrienti o altre sostanze ad effetto nutritivo o fisiologico» (110). Le Linee Guida Ministeriali (LGM) contengono disposizioni applicabili alle categorie di integratori alimentari sotto riportate, per aspetti non armonizzati a livello europeo (tabella 8).

L’immissione in commercio degli integratori è subordinata alla procedura di notifica dell’etichetta al Ministero della Salute; per effetto dell’articolo 10 del D. Lgs. n. 169/2004, conclusa favorevolmente la procedura di notifica, gli integratori alimentari vengono inclusi in un registro periodicamente aggiornato e consultabile in ordine alfabetico per prodotto (118) e per impresa (119): l’elenco, aggiornato al 28 febbraio 2018, contiene 72.540 prodotti.

Secondo quanto riportato da Federsalus - Associazione Nazionale Produttori e Distributori Prodotti Salutistici - il mercato degli integratori nel 2017 ha sfiorato i 3 miliardi di euro, con una crescita del 5,9% nell’ultimo anno (120). Il 92% circa del valore di mercato deriva dalle vendite in farmacia, mentre il rimanente 8% viene dalla grande distribuzione organizzata (GDO), che include i corner farmacia negli iper- e supermercati, ma non tiene conto delle vendite in erboristeria e parafarmacia e di quelle online. Il mercato è in netta espansione sia in termini di spesa (figura 1), sia di volumi. Nel 2017 il 65% della popolazione adulta ha utilizzato almeno un integratore e oltre i 2/3 dei consumatori li considerano prodotti sicuri ed efficaci. Mediamente nel 2017 ogni persona ha utilizzato 2,5 tipologie di integratori.

Negli ultimi anni in Italia si è dunque assistito a un consolidamento dei consumi degli integratori in risposta ai bisogni della popolazione che, secondo le indagini di Federsalus, vanno dal tono, rinforzo ed energia (35%), alla gestione di situazioni specifiche (28%), quali ad esempio disturbi intestinali, genitali femminili o delle vie urinarie, alla prevenzione (22%), in particolare nell’ambito cardiovascolare e osteorticolare, alla promozione del benessere (15%). Nella scelta di utilizzo degli integratori alimentari, il 38% dei consumatori riceve un consiglio dal medico e il 37% dal farmacista. Pur muovendosi attraverso diversi canali, per l’acquisto degli integratori il consumatore continua a privilegiare la farmacia, alla quale seguono parafarmacia e GDO, con una propensione non trascurabile all’acquisto online.

Questo trend in continua ascesa fa conquistare all’Italia la pole-position in Europa sul consumo di integratori con il 20% di circa 12 miliardi di consumi nel 2016; seguono Germania (13,2%), Russia (9,6%), Regno Unito (9,7%) e Francia (8,9%) e tutti gli altri paesi europei (38,6%) (121). Negli Stati Uniti il mercato, con più di 90.000 prodotti, vale quasi 30 miliardi di dollari (122).

A fronte di questo notevole incremento dei consumi nazionali, il Gruppo di Lavoro multidisciplinare “Salute e qualità della vita” della Federazione Italiana Scienze della Vita (FISV), rappresentativo di varie società scientifiche (Associazione Antropologica Italiana, Società Italiana di Chimica Agraria, Società Italiana di Farmacologia, Società Italiana di Mutagenesi Ambientale, Società Italiana di Microbiologia Generale e Biotecnologie Microbiche, Società Italiana di Patologia Vegetale) ha recentemente pubblicato un breve position paper (123) da cui emergono tre inconfutabili certezze:

  • il mercato degli integratori è in continua crescita;
  • gli integratori vengono commercializzati senza alcun obbligo di dimostrarne efficacia e sicurezza, ma solo quello di una corretta applicazione della Good Manufacturing Practice, per garantire l’assenza di contaminanti viventi (virus, batteri, etc.) o sostanze tossiche (metalli pesanti, impuritĂ  chimiche, etc.);
  • le evidenze scientifiche sull’uso degli integratori alimentari mostrano che nella stragrande maggioranza dei casi il loro uso non solo è improprio - in quanto una dieta bilanciata sarebbe molto piĂą efficace per “sanare” eventuali carenze di oligoelementi o vitamine - ma che spesso questi prodotti si associano ad effetti indesiderati, sia per la concomitanza di patologie o di trattamenti farmacologici con cui possono interferire, sia per i potenziali effetti avversi quando oligoelementi e vitamine vengono assunti in dosi superiori rispetto ai reali bisogni.

In un contesto caratterizzato da espansione del mercato e limitate evidenze scientifiche, che concretizza il paradosso “benefici trascurabili, consumi rilevanti” (124), è meritevole l’iniziativa della stessa Federsalus che ha recentemente pubblicato linee guida in materia di regolamentazione della comunicazione commerciale e di aggiornamento scientifico sugli integratori alimentari (125). L’obiettivo di tali linee guida è di orientare le aziende verso una corretta comunicazione agli operatori sanitari e al consumatore, invitando a diffidare di promesse miracolose e false speranze sui prodotti e smentendo definitivamente che gli integratori “prevengono il cancro, fanno dimagrire, sostituiscono i pasti, curano malattie, sostituiscono i farmaci”. D’altra parte in un position paper della stessa Federsalus destinato a informare i farmacisti (ma non i medici!) le indicazioni sull’uso degli integratori sono basate sui claim ammessi dal Regolamento Europeo piuttosto che sulle prove di efficacia (126), rischiando di creare fuorvianti asimmetrie formative. Considerato che qualsiasi informazione sugli integratori non deve in nessun caso essere priva di evidenze scientifiche, questa sezione del Position Statement ha l’obiettivo di aiutare tutti i professionisti sanitari a rispondere alle frequenti domande dei pazienti sugli integratori, oltre che a contrastarne l’uso inappropriato da parte di persone sane.

Anzitutto è fondamentale che medici e farmacisti informino i loro pazienti che gli integratori non sostituiscono mai una dieta sana ed equilibrata e, nella maggior parte dei casi, offrono benefici molto limitati, se non addirittura nulli, rispetto ad una corretta alimentazione (127). Inoltre, quando si rivaluta la terapia farmacologica, il medico dovrebbe sempre verificare con il paziente l’assunzione di eventuali integratori per informarli delle potenziali interazioni. Ad esempio, una quantità di vitamina K supplementare può ridurre l’efficacia del warfarin, mentre la biotina (vitamina B7) può interferire con l’accuratezza diagnostica della troponina e di altri test di laboratorio. Il medico deve inoltre evidenziare i numerosi vantaggi di assumere vitamine e minerali con l’alimentazione anziché con gli integratori, perché i micronutrienti contenuti nel cibo vengono assorbiti meglio e non presentano effetti avversi (128). Una dieta equilibrata fornisce una varietà di sostanze nutrizionali in quantità biologicamente ottimali rispetto alla loro assunzione isolata in concentrazioni elevate: infatti gli studi dimostrano che specifici regimi alimentari o tipi di cibo determinano migliori outcome di salute rispetto al consumo di singoli micronutrienti o nutrienti. Il box 3 riporta un decalogo per la corretta informazione sugli integratori e il loro utilizzo.

Box 3. Decalogo per conoscere meglio e usare correttamente gli integratori alimentari (modificato da (129))

  • L’utilizzo degli integratori, per essere efficace e sicuro, richiede la conoscenza del loro funzionamento e delle loro proprietĂ 
  • Gli integratori alimentari sono prodotti alimentari e come tali:
    • non possono vantare proprietĂ  terapeutiche, nĂ© capacitĂ  di prevenzione e cura di malattie nell’etichettatura, presentazione e pubblicitĂ 
    • sono soggetti alle norme in materia di sicurezza alimentare
  • Gli integratori alimentari sono venduti in capsule, compresse, polveri in bustine, flaconcini e simili: in base alla loro composizione possono favorire il regolare funzionamento dell’organismo e, in casi selezionati, a migliorare gli esiti di salute
  • Gli integratori alimentari dovrebbero essere utilizzati solo in situazioni specifiche quali la carenza di nutrienti o il loro aumentato fabbisogno per l’organismo
  • Gli integratori non possono sostituire una dieta varia ed equilibrata, nĂ© di uno stile di vita sano
  • Gli integratori sono destinati prevalentemente a fasce di popolazione vulnerabili: donne in gravidanza, neonati e bambini, anziani
  • Non assumere integratori per periodi prolungati, nĂ© in dosi superiori a quelle consigliate in etichetta
  • Consultare preventivamente il medico se:
    • non si è in buona salute o si assumono farmaci, perchĂ© potrebbero comparire effetti indesiderati e interazioni tra le diverse sostanze
    • si desidera utilizzare piĂą integratori insieme
  • In caso di effetti indesiderati o inattesi, sospendere l’assunzione e informare il medico o il farmacista che potranno segnalare l’evento tramite apposita scheda
  • Acquistare gli integratori attraverso i canali ufficiali di distribuzione, diffidando da quelli non ufficiali (es. internet)

A fronte del legittimo entusiasmo dei produttori per un mercato in continua crescita, le evidenze scientifiche sugli integratori vanno in tutt’altra direzione: infatti, la maggior parte dei trial controllati randomizzati su integratori di vitamine e minerali non hanno dimostrato chiari benefici per la prevenzione di patologie croniche non correlate a specifiche carenze nutrizionali. Anche i titoli di alcuni recenti editoriali, a commento di trial e revisioni sistematiche, enfatizzano questo messaggio in maniera estremamente incisiva: «Quando il troppo è troppo: smettiamola di sprecare denaro in integratori di vitamine e minerali» (130). In particolare le evidenze sono insufficienti per valutare il profilo rischio-beneficio di integratori singoli o multipli per la prevenzione di malattie cardiovascolari e neoplasie (131). Di conseguenza, negli adulti in buona salute l’integrazione di supplementi multivitaminici e multimineralici non è raccomandata (132): solo due trial condotti in soggetti maschi hanno rilevato una modesta riduzione del rischio di neoplasie, ma i risultati devono essere replicati in trial di adeguate dimensioni che includano anche le donne e permettano di analizzare gli standard di riferimento di nutrienti, un importante modificatore dell’efficacia del trattamento. In tal senso si attendono i risultati di un mega-trial in corso che potrebbe chiarire il profilo rischio-beneficio degli integratori multivitaminici e multimineralici per la prevenzione primaria di neoplasie e malattie cardiovascolari (133). Infine, alcuni supplementi come beta-carotene, vitamina E, vitamina A sono generalmente controindicati, in particolare se superano la dose giornaliera raccomandata - Recommended Daily Allowance (RDA) - in quanto evidenze da trial randomizzati che hanno arruolato decine di migliaia di soggetti dimostrano che aumentano la mortalità (134,135), alcune neoplasie e stroke emorragico (136).

Dopo che una revisione sistematica di 12 trial aveva già concluso che gli integratori multivitaminici che includevano vitamine del gruppo B, vitamina E, vitamina C e acidi grassi omega-3 non hanno alcun effetto sul declino cognitivo negli anziani (137), Grodstein et coll. (138) hanno posto la pietra tombale con un trial che ha arruolato 5.947 uomini di età = 65 anni nei quali dopo 12 anni di follow-up i soggetti che assumevano multivitaminici giornalmente non avevano alcuna differenza con il gruppo placebo nel declino cognitivo generale né nella memoria verbale.

Anche se l’utilizzo di integratori multivitaminici e multimineralici non è raccomandato per la popolazione generale, l’assunzione di specifici integratori può essere raccomandata in determinate fasi della vita e in sottogruppi a rischio nei quali il fabbisogno nutrizionale può non essere soddisfatto attraverso la sola dieta (box 4).

Box 4. Indicazioni appropriate per l’utilizzo degli integratori (modificato da (127))

Popolazione generale

  • Gravidanza: acido folico, vitamina D
  • Neonati allattati al seno: vitamina D sino allo svezzamento e ferro da 4 a 6 mesi di vita
  • Adulti di etĂ  >50 anni: potenziali benefici da vitamina B12, vitamina D e calcio

Sottogruppi a rischio

  • Patologie e condizioni che interferiscono con l’assorbimento dei nutrienti o con il loro metabolismo:
    • Chirurgia bariatrica: vitamine liposolubili, vitamine del gruppo B, ferro, calcio, zinco, rame, supplementi multivitaminici e multimineralici
    • Anemia perniciosa: vitamina B12
    • Malattie infiammatorie croniche intestinali (Crohn, colite ulcerosa), malattia celiaca: ferro, vitamine del gruppo B, vitamina D, zinco, magnesio
    • Osteoporosi e altre patologie delle ossa: vitamina D, calcio, magnesio
    • Degenerazione maculare senile: vitamine antiossidanti, zinco, rame
  • Terapie farmacologiche a lungo termine:
    • Inibitori della pompa protonica (a): vitamina B12, calcio, magnesio
    • Metformina: vitamina B12
  • Alimentazione soggetta a restrizioni, diete non bilanciate: supplementi multivitaminici e multimineralici, vitamina B12, calcio, vitamina D, magnesio

(a)Evidenze non definitive

Gravidanza. Le evidenze scientifiche dimostrano che le donne che pianificano una gravidanza nel primo trimestre di gravidanza dovrebbero assumere un’adeguata quantità di acido folico (0,4-0,8 mg/die) per prevenire i difetti del tubo neurale (139,140). Rispetto alla somministrazione di vitamina D in gravidanza le evidenze sono meno robuste e le raccomandazioni delle linee guida di società scientifiche e agenzie governative sono molto variabili: ad esempio l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda contro la supplementazione di vitamina D in gravidanza, mentre altri raccomandano una dose di 10 microgrammi/die per tutta la durata della gravidanza e dell’allattamento. Una recente revisione sistematica ha mostrato che la maggior parte dei trial pubblicati sono di piccole dimensioni e di inadeguata qualità metodologica (141). In particolare, 43 trial che hanno arruolato 8.406 partecipanti dimostrano che la supplementazione di vitamina D in gravidanza si associa con un’aumentata concentrazione di 25-idrossivitamina D nel sangue materno e nel cordone ombelicale, aumenta il peso medio alla nascita, riduce il rischio di neonato piccolo per l’età gestazionale, quello di sibili neonatali e aumenta la lunghezza del bambino a un anno di età. Le evidenze sono insufficienti su outcome materni correlati alla gravidanza quali la pre-eclampsia e nessuna efficacia è dimostrata su altri outcome neonatali rilevanti, come la riduzione del parto pretermine, lo sviluppo del neonato e outcome respiratori. Pochi trial erano disegnati per valutare l’efficacia della vitamina D su outcome clinici o funzionali. 35 trial in corso che arruolano ben 12.530 partecipanti dovrebbero chiarire le zone grigie sull’efficacia dei supplementi di vitamina D in gravidanza. Riguardo l’assunzione di supplementi di ferro alle donne gravide, sebbene potenzialmente appropriata con bassi livelli di emoglobina e/o di ferritina, il profilo rischio-beneficio dello screening per l’anemia e la supplementazione di ferro in gravidanza è ancora incerto (142).

A fronte di queste evidenze, esiste un marketing insistente che propone integratori multivitaminici e multimineralici alle donne in tutte le fasi della gravidanza per prevenire una gamma di problemi che possono derivare da carenze nutrizionali, tra cui pre-eclampsia, limitata crescita fetale, difetti del tubo neurale, deformazioni scheletriche e basso peso alla nascita. Questi integratori contengono generalmente almeno 20 tra vitamine e minerali, tra cui vitamina B1, B2, B3, B6, B12, C, D, E e K, acido folico, iodio, magnesio, ferro, rame, zinco e selenio, ed hanno un costo variabile tra 15 e 20 euro al mese. Una recente revisione sistematica (143) ha dimostrato che le formulazioni commerciali di integratori multivitaminici e multimineralici per le donne in gravidanza sono uno spreco di denaro perché, ad eccezione di acido folico e vitamina D, per tutti gli altri integratori quando l’alimentazione è adeguata non è documentato alcun beneficio per mamma e bambino e che elevate dosi di vitamina A possono danneggiare lo sviluppo del feto. Alla luce delle evidenze disponibili, pertanto, per la maggior parte delle donne che pianificano una gravidanza o già gravide, gli integratori multivitaminici e multimineralici sono inutili (se non potenzialmente dannosi) e costituiscono una spesa non necessaria.

Neonati e bambini. I neonati allattati esclusivamente o parzialmente al seno dovrebbero assumere supplementi di vitamina D (400 UI/die) dalla nascita fino allo svezzamento a partire dal quarto mese fino all’introduzione di alimenti contenenti ferro, di solito al sesto mese (144). I neonati che assumono latte artificiale, che è arricchito di vitamina D e spesso di ferro, generalmente non necessitano di ulteriori supplementazioni. Tutti i bambini di 1 anno dovrebbero essere sottoposti a screening per carenza di ferro e anemia da carenza di ferro.

I bambini sani che seguono una dieta bilanciata non necessitano di integratori di vitamine e/o minerali e dovrebbero evitare quelli contenenti dosi di micronutrienti che superano l’RDA. Negli ultimi anni, l’integrazione di acidi grassi omega 3 è stata vista come potenziale strategia per ridurre nei bambini il rischio di disturbo dello spettro autistico o del deficit di attenzione/iperattività, ma mancano evidenze a supporto da grandi trial randomizzati.

Adulti di etĂ  media e anziani. Gli adulti di etĂ  ≥50 anni possono non assorbire correttamente la forma naturale della vitamina B12 solitamente legata ad una proteina e dovrebbero pertanto raggiungere la RDA (2.4 mg/die) con vitamina B12 sintetica contenuta in alimenti fortificati o integratori. I pazienti affetti da anemia perniciosa richiedono dosi piĂą elevate: 1-2 mg/die per os o 0,1-1mg/mese per via intramuscolare. Relativamente alla vitamina D, le dosi attualmente raccomandate per mantenere un’adeguata densitĂ  minerale ossea è 600 IU/die nei soggetti <70 anni e 800 IU/die in quelli ≥70 anni (145). Anche se alcune societĂ  scientifiche raccomandano una dose da 1.000 a 2.000 IU/die, è tuttora oggetto di acceso dibattito nella comunitĂ  scientifica se dosi maggiori della RDA offrano ulteriori benefici. Trial randomizzati di grandi dimensioni attualmente in corso (146,147) dovrebbero risolvere presto queste incertezze.

Per quanto riguarda il calcio, l’attuale RDA è 1.000 mg/die per gli uomini di etĂ  compresa tra 51 e 70 anni e 1.200 mg/die per le donne di etĂ  compresa tra 51 e 70 anni e per tutti gli uomini di etĂ  >70 anni. Considerando che le integrazioni di calcio potrebbero aumentare il rischio di litiasi renale e malattie cardiovascolari, i pazienti dovrebbero seguire una dieta ricca di calcio e assumere integratori solo se necessario per raggiungere la RDA di circa 500 mg/die. Una recente meta-analisi ha suggerito che una supplementazione di calcio a dosi moderate (<1.000 mg/die) piĂą vitamina D (=≥00 UI/die) può diminuire il rischio di fratture e la riduzione della densitĂ  minerale ossea nelle donne in etĂ  postmenopausale e negli uomini di etĂ  ≥65 anni.

3. IL FUTURO DELLA SCIENZA DELLA NUTRIZIONE
Ogni nuova conquista della scienza genera conoscenze nuove e più analitiche e oggi si conoscono meglio sia i numerosi e articolati percorsi biologici con cui le abitudini alimentari influenzano la salute, limitando il valore degli outcome surrogati (112), sia i complessi effetti sulla salute di differenti cibi e modelli alimentari al di là dell’effetto dei singoli nutrienti (148). Stanno anche emergendo gli effetti indipendenti dalle calorie di vari cibi sui modulatori della regolazione del peso a lungo termine (es. fame, sazietà, appagamento mentale, risposte metaboliche, sintesi epatica di grassi, funzione degli adipociti, spesa metabolica, microbioma) evidenziando l’importanza della qualità del cibo più che il bilancio energetico e il conteggio calorico per prevenire l’obesità (106). Sono anche stati delineati gli effetti comparativi dei fattori dietetici: non è importante definire se un determinato alimento è salutare o nocivo, ma bisogna farlo confrontandolo con un altro. In tal senso oggi è possibile trarre ragionevoli conclusioni sulle priorità nutrizionali per la salute pubblica: consumare cibi poco raffinati e bioattivi (frutta, nocciole, semi, legumi, verdure, grano integrale, oli vegetali, yogurt, pesce) ed evitare cibi estremamente raffinati ricchi di amido, zuccheri raffinati e additivi industriali come acidi grassi trans e sodio.

Ovviamente, persistono numerose aree grigie, in particolare su preparazione e raffinazione degli alimenti, metaboliti degli acidi grassi, flavonoidi, comunicazione metabolica intestino-cervello, grasso bruno e beige, microbioma, influenze della prima infanzia e meccanismi e percorsi biologici ancora da scoprire. Inoltre, sono emerse parallelamente nuove incertezze: dalla rilevanza dei grassi saturi e delle loro diverse provenienze alimentari, inclusi i latticini, al valore di diete molto povere di carboidrati; dal consumo ottimale di sodio all’effetto dell’olio di pesce o degli integratori di vitamina D; dal ruolo dei dolcificanti non calorici agli effetti sulla salute dei cibi ricchi di amido e delle fonti di grassi come gli oli vegetali. Infine, il gap temporale tra la generazione di nuove conoscenze e la loro implementazione determina ulteriori controversie e aumenta la confusione nell’opinione pubblica, come ad esempio il continuo interesse dell’industria per gli alimenti a basso contenuto di grassi, a dispetto delle recenti evidenze secondo cui i grassi totali sono meno rilevanti delle specifiche tipologie (saturi, insaturi, trans) (149).
L’estrema attualità del tema ha indotto il BMJ a lanciare una nuova serie di articoli per esaminare l’impatto sulla salute di evidenze scientifiche e politiche alimentari, coinvolgendo esperti con diversi punti di vista per promuovere evidenze oggettive e un dibattito razionale su “ciò che sappiamo e su ciò che abbiamo bisogno di sapere”, in un ambito di fondamentale importanza per la salute pubblica (150).

3.1. Evoluzione della metodologia della ricerca
La metodologia della ricerca della scienza della nutrizione si è progressivamente evoluta (151,152) con disegni di studio avanzati, studi metabolici dal disegno accurato, trial randomizzati con follow-up a lungo termine. Sono stati sviluppati metodi per stabilire validità e riproducibilità degli strumenti di valutazione dietetica e strategie per ridurre i bias; metodi di valutazione complementari come reminder quotidiani, annotazioni di cibo pesato, questionari sulla frequenza di assunzione di alimenti e indicatori biochimici; aggiustamenti energetici in relazione ad età, genere, costituzione fisica, attività fisica e sistematiche sovrastime/sottostime; ripetizioni delle misurazioni per ridurre gli errori e giustificare la variabilità nel singolo paziente; nuove tecnologie per incrementare l’utilizzo di strumenti di valutazione e biomarcatori nutrizionali; studio di modelli alimentari piuttosto che singoli nutrienti.

Con i progressi in termini di qualità e quantità delle evidenze si è meglio compreso come integrare i risultati provenienti da diversi disegni di studio per proporre inferenze causali. Fondamentale in questo senso, chiariti punti di forza e limiti di studi osservazionali e sperimentali, è la ragionevole certezza che per fornire raccomandazioni evidence-based sull’alimentazione - analogamente a qualsiasi altro settore della medicina - è necessario valutare in maniera sistematica tutte le evidenze disponibili, perché ciascuna tipologia di studio fornisce dati complementari alle conoscenze scientifiche complessive e nessun singolo studio è sufficiente per raggiungere evidenze incontrovertibili (box 5).

Box 5. Contributo dei differenti disegni di studio alle evidenze sulla nutrizione: l’esempio degli acidi grassi polinsaturi (153-159)

Studi preclinici

  • Studiare meccanismi d’azione e percorsi fisiopatologici dei possibili effetti degli acidi grassi polinsaturi

Studi osservazionali di coorte

  • Documentare in popolazioni differenti le relazioni tra il consumo stimato di acidi grassi omega 3 e omega 6 (o dei biomarcatori degli acidi grassi omega 3 e omega 6) con le abitudini alimentari, i fattori di rischio, gli outcome clinici

Trial controllati randomizzati

  • Confermare i cambiamenti della concentrazione ematica di specifici acidi grassi omega 3 e omega 6 dopo l’assunzione controllata di alimenti ricchi di tali grassi
  • Documentare gli effetti dell’integrazione con acidi grassi omega 3 e omega 6 sui fattori di rischio
  • Valutare l’efficacia degli acidi grassi omega 3 e omega 6 su outcome clinici

3.2. Migliorare conduzione e reporting
La scienza è una disciplina la cui conditio sine qua non è la costante ricerca della verità attraverso la conduzione e disseminazione di studi rigorosi: la replicazione degli studi dovrebbe pertanto essere salutata favorevolmente al fine di determinare la generalizzabilità dei risultati. In tal senso è fondamentale che anche la scienza della nutrizione aderisca alle raccomandazioni per ricercatori, istituzioni e riviste finalizzate a migliorare conduzione e reporting della ricerca.

  • Registrazione. La registrazione dei protocolli di studio garantisce che l’obiettivo originale di uno studio venga fedelmente riportato nel report finale e considerato un elemento di valore nella peer review. Una registrazione completa dei protocolli di studio deve includere: dati che devono essere raccolti; outcome primari e secondari; piani predefiniti di analisi dei dati, visto che le analisi statistiche vengono talvolta scelte appositamente per generare effetti significativi attraverso la manipolazione dei dati, rimozione degli outlier e altre manipolazioni del P value (160). La selezione degli outcome o i piani di analisi post hoc dovrebbero essere chiaramente esplicitati così che i risultati possano essere interpretati con le opportune cautele.
  • Trasparenza multi-confronto. Sono necessari solo 59 confronti errati per avere il 95% di probabilitĂ  con almeno un P value significativo. Pertanto, la correzione multi-confronto è importante, in particolare con dataset di grandi dimensioni che permettono di eseguire innumerevoli test statistici. Se i confronti multipli non sono corretti, il lettore dovrebbe essere informato di quanti test sono stati condotti, in modo da stimare la probabilitĂ  di effetti falsamente positivi per effetto del caso.
  • Aderenza alle linee guida per il reporting. L’EQUATOR network raccoglie le linee guida per il reporting di diversi tipi di studio: revisioni sistematiche, trial controllati e randomizzati, studi osservazionali, etc (161). Lungi dall’essere considerate come ostacoli burocratici alla pubblicazione, le linee guida per il reporting dovrebbero essere utilizzate per facilitare una migliore comunicazione dei risultati della ricerca, per aiutare altri ricercatori a comprendere i metodi utilizzati e per favorire la replicazione degli studi.